I Travellers, gli zingari d’Irlanda, sono una popolazione di cui quasi nessuno conosce l’esistenza ma dalle caratteristiche uniche.
Nessuno sa con certezza da dove siano venuti e perché non si fermino mai, ma delle tante romantiche versioni che circolano sulle loro origini, la più affascinante è ancora quella che Patrick Stokes raccontò un giorno nel suo accampamento a un ricercatore.
Patrick l’aveva ascoltata dal padre, al quale l’aveva riferita il nonno che l’aveva appresa dal padre e così via, fino alla notte dei tempi. La storia diceva che gli uomini che avevano deciso di crocifiggere Gesù cercavano qualcuno che fondesse i chiodi e mettesse insieme una croce. Il falegname rifiutò per primo e l’unico che alla fine si lasciò convincere fu il lattoniere. Guardandolo, Gesù gli disse: il falegname dovunque andrà sarà ricco e fortunato. Ma il lattoniere sarà condannato a vagare per sempre sulla terra e non troverà mai una casa.
Ancora oggi, gli zingari irlandesi sono noti come tinkers (stagnai, lattonieri) anche se preferiscono farsi chiamare «Travellers», viaggiatori. Di tutte le popolazioni nomadi d’Europa sono davvero le più strane: non hanno alcuna affinità con i Roma o con i ceppi etnici continentali, sono irlandesi al 100 per cento, con i capelli rossi, le lentiggini e gli occhi chiari. Fino a qualche anno fa, i loro carri a botte trainati da cavalli erano un elemento del paesaggio, insieme alle brughiere e ai muri a secco. Ora, come tutti gli altri zingari del mondo, si muovono su scalcinate automobili e roulottes, chiedono l’elemosina, rubano e lasciano un sacco di sporcizia quando se ne vanno.
Ma nei loro accampamenti, da qualche tempo, c’è un continuo via-vai di studiosi, armati di macchine fotografiche e registratori. A forza di respingere i nomadi da una parte all’altra, gli irlandesi stanziali più avveduti si sono accorti che rischiavano di perdersi qualcosa: una buona fetta della storia e della cultura della loro terra.
Nella misteriosa lingua nota come Gammon o Cant, un misto di gaelico e di Hiberno-English, e senza mai scrivere una sola riga, gli «Irish Travellers» hanno tramandato centinaia di bellissime storie, di favole e di leggende, di antiche canzoni celtiche che solo grazie a loro sono arrivate fino a noi. Da poco tempo cominciano ad essere catalogate e custodite nel Department of Irish Folklore dell’University College di Dublino, dove lavora Bairbre Nì Fhloinn. «La ragione per cui sappiamo così poco della storia dei Travellers – ha sottolineato – è che, come le altre popolazioni marginalizzate, sono sfuggite al radar della storia convenzionale e ufficiale. Quando l’antropologa Sinéad Nì Shùinéar ha voluto studiarli, è dovuta andare ad osservare i quadri dell’800 nella National Gallery di Dublino per trovare dipinti i loro carri e i loro accampamenti».
Uno dei ricercatori ai quali i «Travellers» dovranno prima o poi fare un monumento, anche solo di latta, è Alen MacWeeney, un fotografo di origine irlandese che sì è trasferito a New York per lavorare con Richard Avedon, ma che ha trovato il tempo, dagli Anni ‘60 a oggi, di trascorrere molti mesi nei campi dei nomadi, riprendendo i volti antichi dei bambini e le loro madri sempre indaffarate. Nei lunghi colloqui registrati con le donne e gli uomini dell’accampamento di Cherry Orchard (che si chiamava come «Il giardino dei ciliegi» di Cechov, ma era diventato una pattumiera), MacWeeney ha capito quanta cultura e profondità di vedute fosse presente in quel mondo apparentemente così estraneo, e in quei nomadi che tendiamo a considerare «invisibili» quando li incontriamo.
Alen, fumando come tutti gli uomini del posto una sigaretta dopo l’altra, ascoltava la sera le incredibili storie di John Cassidy, uno dei leader della comunità, che erano meravigliose già fin dai titoli: «Il gatto che sapeva parlare», «Il cuore, il fegato e la luce», «Sono qui, disse la donna che aspettava», e quando Cassidy si interrompeva, la moglie lo aiutava a ricordare. La loro figlia Ketty cantava senza alcun accompagnamento antiche canzoni, alcune delle quali ora sono incise e si conserveranno forse per sempre.
Molti «Irish Travellers» hanno fatto carriera nel campo della musica e suonano nei principali locali folk di Dublino, di Londra e degli Stati Uniti e alcune star della musica si sono ispirati a loro. Bob Dylan, ad esempio, ha ripreso i semplici accordi di una canzone irredentista cara anche agli zingari, «The Patriot Game», per una delle sue prime composizioni, «With God On Our Side».
Quando il governo irlandese, considerandoli cittadini come gli altri, forse espulsi dalle loro terre nella grande fame del 1840 o dall’invasione di Cromwell, ha cercato di trovare loro una soluzione sedentaria, ben pochi «Travellers» hanno accettato. L’acqua corrente e il riscaldamento dietro alla porta chiusa di un condominio non valgono la libertà e le porte sempre aperte dei carri e delle roulottes, anche se la giornata è sempre dura e l’aspettativa di vita supera di poco i 30 anni.
Le ragazze devono sbrigarsi a sposarsi e a fare i loro dieci figli, ma ancora oggi, come ricorda Jane Helleiner nel bello studio che ha dedicato a questa comunità, si rispettano regole morali: le donne non hanno rapporti sessuali prima del matrimonio, che di solito è combinato dai parenti. Ma se qualcosa va storto, ogni moglie è libera di tornare alla sua famiglia e di dire al padre o al fratello: «Tu hai voluto che io sposassi quello scemo. Ora tocca a te fargli capire come si deve comportare». La mediazione di solito funziona, risolve i conflitti e nessuno divorzia.
Che ci sia qualcosa da imparare anche dai popoli che non vogliamo vedere?